L'EPOCA DI FRATE UMILE

 

L’epoca in cui è vissuto frate Umile è preceduta e arricchita da avveni­menti importanti. Ci limiteremo, pertanto, a tracciare a grandi linee l'ambito storico in cui ci muoviamo (fine XVI inizio XVII secolo),

adattando il testo alle esigenze di una trattazione quanto più possibile semplice.

II periodo storico precedente la nascita di frate Umile fu caratterizzato in campo politico dalla pace di Cateau-Cambrésis (1559), che aveva messo fine alla lunga lotta tra francesi e spagnoli e che decise, per oltre un secolo e mezzo (1559-1715), il destino dell'Italia, che fu costretta a subire dovunque, direttamente o indirettamente, il governo spagnolo. Ciò nonostante, Marafioti nelle sue Croniche e Antichità di Calabria descrive la Calabria come una terra fertile e ricca, in grado di fornire "quanto di buono si produ­ce [...] per uso di se medesima, e di tutta l'Italia"'. In realtà il lungo perio­do del predominio spagnolo fu uno dei più bui della nostra storia, perché la Spagna considerò la penisola come una terra di conquiste e di sfruttamento. Più volte il popolo, preso dalla disperazione, si ribellò, specie nel napoleta­no, dove i contrasti sociali erano addirittura drammatici2, ma le sue rivolte ebbero sempre carattere economico e non politico; infatti esse non furono mai dirette contro il governo spagnolo, ma contro i Vicerè, ai quali il popo­lo attribuiva la colpa dei suoi mali'.

Nel De antiquitate et situ Calabriae (1571), Gabriele Barrio nel descrivere la decadenza della Calabria sotto la dominazione spagnola, così si espri­me: "(...) non solo essa è travagliata dalle ordinarie esazioni fiscali, ma è-vessata da ingiusti e pesanti gravami. (...) tanto l'una che l'altra spiaggia della regione ogni anno sono infestate dai pirati; per cui città e villaggi ven­gono spesso dati in mano al saccheggio, al massacro e all'incendio; si bru­ciano le messi, si tagliano i vigneti, gli oliveti e ogni sorta d'alberi; e bestie innumerevoli e pecore e — cosa tanto più miseranda e lacrimevole — esseri umani d'ogni età e sesso vengono offerti in preda. Perciò città e casali sono ormai privi di abitanti, e i campi sono diventati, in pii'.  luoghi, avviliti e incolti. Non c'è alcuno -che tuteli i mari, che dia sicurezza alle strade infe­state da ladri e grassatori (...)"4. Quanto appena descritto non è soltanto il quadro della nostra Regione, ma è il quadro di tutto il Mezzogiorno. Tuttavia, le cause della crisi seicentesca della Calabria e del Regno di Napoli devono ricollegarsi anche a quella più generale attraversata dall'Europa in quel periodo, travagliata dalle diverse guerre in corso che hanno inevitabil­mente determinato la decadenza economica di alcuni stati, specialmente la Spagna. In questo contesto l'Italia occupa uno spazio limitato e subalterno, esportando materie prime ed importando prodotti finiti, mentre il mercato interno si contrae e si appesantiscono i vincoli sociali ed istituzionali che limitano la produzione e lo scambio. La crisi dell'industria e dell'agricoltura italiana deriva non solo da una `perdita di ruolo rilevante nel sistema commerciale europeo", ma anche da "una caratterizzazione [...] parassita­ria del traffico controllato dalle navi italiane. Nel retroterra dei vari porti italiani non si dirama una rete di commerci e di produzioni agricole e mani­fatturiere che forniscano allo scambio internazionale la forza di un tessuto produttivo interno"6. Dunque, le popolazioni dell'Italia agricola, tra cui quel­le meridionali, non partecipano in forma attiva nel commercio estero e il commercio di esportazione del grano, dell'olio e del vino è appannaggio o dei grandi proprietari o dei commercianti stranieri.'

A questo si aggiunga che le popolazioni calabresi residenti sulla costa, erano prese di mira dalle incursioni turche e barbaresche che lungo tutto il `500 e gran parte del `600 aggredirono navi e barche in transito, razziandone le merci. La rapida frequenza con cui venivano fatti gli attacchi sbaragliò persi­no le misure difensive, vanificando anche il tentativo del duca d'Alcalà, di col- locare una linea di torri lungo la costa proprio per arginare gli assalti dei pira­ti. Le aggressioni divennero un fattore di destabilizzazione cronico in quanto all'impotenza si aggiunse anche la compiacenza delle autorità locali e, in molti casi, anche la compiacenza o l'abbandono delle postazioni da parte dei torrie­ri. In questa situazione è facile immaginare quale fosse lo stato d'annuo dei passeggeri che s'imbarcavano dalle nostre coste per recarsi alla capitale del Regno e in altri centri; lo stesso frate Umile nei suoi viaggi a Napoli e a Roma si recava al porto di Paola8, che costituiva l'approdo più importante "luoco di marina et di traffico", dove risiedeva il Mastro Portolano di Calabria Citra, che governa con gli ufficiali della dogana e controlla gli ufficiali degli altri fon­daci" e "suffondaci", cioè i fondaci minori di Montalto e di S. Giovanni'.

Un'altra causa della crisi seicentesca della Calabria è da rintracciare nel calo demografico della popolazione, caratterizzato da scarse nascite e da scar­si matrimoni. Infatti, alla crescita demografica cinquecentesca, avviata già nel tardo quattrocento, e che a Bisignano aveva determinato un aumento della popolazione di oltre 5000 abitanti," seguì un inesorabile declino a partire dalla fine del primo ventennio del seicento, come testimoniano i fuochi del­l'epoca e le relations ad limina redatte dai vescovi di Gerace, di Belcastro e di Nicotera. E' indicativo, inoltre, il calo della rendita derivante dai possedimenti del vescovo di Bisignano, Giovanni Battista De Paola (1626-1657), che da circa 2.700 ducati del 1630, si ridusse a soli 2.200 ducati nel 1641'.

Negli anni successivi, nel pieno della guerra dei trent'anni (1618­1648), il Governo decise la vendita in feudo di città già demaniali per procurarsi altre entrate straordinarie. Tale atteggiamento non fu gradito ai terrazzani che decisero di raccogliere fondi, tra tutti i cittadini, da offrire allo Stato pur di evitare l'infeudamento12. Si acuirono le vessazioni baronali, che nel'34 provocarono il tentativo di fra' Tommaso Pignatelli di reclutare proseliti: per liberare il Mezzogiorno dagli spagnoli; il moto però fu represso sul nascere.

Ovviamente, anche Bisignano risentì della crisi sociale ed economica in cui si trovava la Calabria e dovette fare i conti, come già riferito al pari di altri centri limitrofi, con il progressivo calo demografico, al punto che nel 1634 il Vescovo di Bisignano, Giovanni Battista de Paola, dovet­te addirittura certificare che "la città era talmente deserta, che l'erario del Principe non vi poteva trovare dieci persone per soldati"". Nel 1637, anno in cui morì frate Umile, in Bisignano risiedevano appena 3.000 abi­tanti. A questo si aggiunga che nell'ultimo ventennio del XVI secolo, la famiglia dei principi Sanseverino navigava in cattive acque e numerosi furono i contrasti tra Nicolò Berardino, 5° principe di Bisignano, e la consorte Isabella Feltre della Rovere14. Quasi non bastasse, sullo stato feudale gravavano paurosi indebitamenti, al punto che la corte feudale ricorse più volte all'imposizione di pesanti gabelle che gravavano sui vassalli o all'affitto delle terre, concesse a personaggi intriganti e senza scrupolo che si resero artefici di estorsioni e malversazioni15. Nel 1645 il sedile di nobiltà di Bisignano conteneva 32 famiglie, che deliberarono di non ammettere altre famiglie "giusta il transunto dei capitoli e delle con­dizioni della bussola dei nobili"16, al fine di porre freno all'affermarsi dell'emergente ceto medio, costituito prevalentemente da artigiani, e che tendeva a modificare il rapporto di forza con l'aristocrazia. Analogo fenomeno, di chiusure dei seggi della nobiltà ai nuovi arrivati, era avve­nuto nel 1639 a Catanzaro e a Cosenza, dove la netta e rigorosa volontà della nobiltà precludeva al ceto emergente, se non le possibilità di asce­sa sociale, certamente l'accesso alla direzione dell'amministrazione cit­tadina Quasi dappertutto il seggio degli onorati perse potere e finì con l'essere strumento del patriziato.

Nel 1648 i nobili di Bisignano supplicarono il vicerè che si levassero le gabelle "e si pagasse dalla università come si pagava nel 1464".. Anche in questo caso simili richieste erano state, già presentate al vicerè di Napoli da altri amministratori cittadini che si impegnarono, con quel­li delle altre università del Regno "ormai dolorosamente esperte di quel che per esse aveva significato il pagare così a lungo le imposte sulla base delle numerazioni del 1595, da tempo non rispondente alla realtà", a intervenire sui numeratori dei fuochi, in relazione al nuovo censimento deciso dal governo nel 1640, per ottenere un congruo sgravio".

Una situazione, dunque, di evidente progressivo malessere18, per cui una condizione socio-economica debole, veniva facilmente aggredita dalle calamità naturali: terremoti, carestie, epidemie, etc. Lo stesso Pagano ci riferisce che nel 1656 "La peste incrudele per tutto il Regno dal 15 maggio al 15 agosto, togliendo nelle provincie, eccetto la terra d'Otranto, 900 nn. persone, e assalse con tanta ferocia la gente plebea, che si credette essere imminente la fine del mondo. La peste s'intromise pure a Bisignano, e vi durò per più mesi con grande mortalità"19.

Un'annotazione a parte va fatta per l'arte, che non risenti della crisi politica e delle tensioni sociali presenti nella nostra penisola e che, al contrario, seppe offrire artisti di notevole personalità. Fra i contempora­nei di frate Umile è sufficiente ricordare Michelangelo Merisi da Caravaggio (1573-1610), i Caracci, di cui Annibale era il più famoso (1560-1609), Guido Reni (1575-1642), Gian Lorenzo Bernini (1598­1680). Fra quelli che operarono nella Napoli spagnola e in contatto diret­to con Roma, che con ogni probabilità conobbero frate Umile ricordia­mo l'artista che determinò il barocco della città, il bergamasco Cosimo Fanzano (1591-1678), Massimo Stanzione (1585-1656), Andrea Vaccaro (1598-1670) e il nostro Mattia Preti (1613-1699). Fra gli altri grandi per­sonaggi, contemporanei di frate Umile, che hanno lasciato il segno nella storia troviamo Galileo, Galilei. (1564-1642) e Tommaso Campanella (1568-1639), filosofo e poeta, che quasi certamente incontrò frate Umile a Roma nel 1626, quando il Campanella, rilasciato dagli spagnoli, venne subito chiamato a render ragione dei suoi trascorsi antichi e delle opinioni, espresse in tanti scritti, presso il Sant'Uffizio romano, dove resterà rinchiuso per due anni ancora, giungendo a liberarsene per la simpatia e il favore mostratigli da Urbano VIII. In quel periodo anche frate Umile si trovava a Roma20 e proprio per volere del. Pontefice Urbano VIII, che lo volle come suo consigliere. La sua presenza a Roma coincise con un momento importante della Chiesa: il Giubileo del 1625, indetto proprio da Urbano VIII. Non è del tutto escluso che, diventato consigliere del Papa, abbia saputo offrire spunti per la formulazione di provvedimenti da adottare in quell'anno giubilare. Una citazione a parte va fatta per frate Umile da Petralia Soprana (1600/01-1639), scultore siciliano autore del meraviglioso Crocifisso esposto nella chiesa della Riforma di Bisignano. Secondo una tradizione popolare l'immagine del volto sofferente di Sant'Umile, quando era in punto di morte, ha ispirato l'artista nella rea­lizzazione del volto del Cristo.

In campo religioso, l'epoca di frate Umile, fu invece segnata dalla chiu­sura del Concilio di Trento con cui la Chiesa riordinò le proprie strutture per arginare la falla aperta dall'eresia; un evento assolutamente importante se consideriamo che nessun concilio generale è mai durato tanto a lungo quan­to quello di Trento e che la Chiesa non convocò altri concili generali fino al 1869. Aperto alla fine del 1545, esso tenne la sua ultima• sessione diciotto anni più tardi, nel dicembre del 1563, e contro l'opinione del re di Spagna, il quale avrebbe voluto che continuasse ancóra. Fra le esigenze più sentite dei Padri tridentini vi era quella di prevenire la costante e, a volte, abituale assenza del vescovo dalla sua diocesi, per cui fu stabilito che era dovere dei vescovi risiedere con il proprio gregge, anche se tale decisione fece scaturi­re una controversia teologica. Altre importanti decisioni furono la riafferma­zione dei dogmi della Chiesa, la suprema autorità del Papa nelle questioni religiose, la riconferma dei sette Sacramenti, che Lutero aveva ridotto a due (battesimo ed eucarestia), fu ridato decoro alle funzioni sacre, fu confermato il valore delle indulgenze, fu decisa l'apertura dei seminari diocesani", furono riorganizzati gli ordini religiosi e ne furono creati degli altri, come quello degli Scolòpi, fondato dallo spagnolo Giuseppe Calasanzio per l'istruzione gratuita dei giovani. In Bisignano gli Scolopi vennero nel 1627, dieci anni prima della morte del nostro fra' Umile, e vi rimasero fino al 1695, quando per mancanza di mezzi furono costretti a chiudere l'Istituto che diri­gevano.

L'applicazione delle disposizioni del Concilio di Trento fu soggetta a un continuo monitoraggio da pare della Santa Sede. Lo dimostrano le fonti del tempo che confermano una minuziosa attività inquisitoria in tutta la regione, mirante ad evitare la diffusione delle dottrine luterane, sostenute da esponenti come Nardo Forese, attivo seguace di Lutero, pro­cessato dal Tribunale Ecclesiastico di Squillace nel 1570. Tuttavia, in Calabria il pericolo protestante risultò pressoché inconsistente e le con­giure di Campanella o di Pignatelli avevano riscontri sociali assai più che religiosi nella popolazione del tempo, alla quale la riforma ecclesiastica non interessava granché. Le Visite Apostoliche furono un altro mezzo per conservare ed accrescere la disciplina ecclesiastica, per scacciare l'eresia e, più in generale, per riformare la Chiesa e i costumi delle persone. Si avvertiva, comunque, la necessità di un riordinamento e, soprattutto, di una riqualificazione culturale e morale del clero nel quadro postridenti­no. Chierici corrotti, duellanti, protettori di banditi, o banditi essi stessi, si incontravano ovunque nella Calabria spagnola, nonostante le condan­ne emesse dai sinodi diocesani e dai concili provinciali'. A tutto ciò si aggiunga la presenza dei chierici "selvaggi" - figure poco edificanti - in gran parte provenienti dall'aristocrazia, che godevano di privilegi che consentivano loro di sfuggire ad alcuni vincoli ecclesiastici, ad esempio il celibato, e di commettere impunemente atti criminosi. Nel 1624 i chie­rici "selvaggi" rappresentavano il 64% del clero secolare una cifra abba­stanza ragguardevole", di cui si lamentò anche il vescovo di• Venosa Andrea Pierbenedetto in occasione della Visita Apostolica effettuata nella diocesi di Bisignano nel 16305.

Altre difficoltà erano rappresentate dalla presenza del clero greco che viveva ed operava nelle diocesi di Cassano e di Bisignano e che poneva seri problemi sia in ordine giurisdizionale che in ordine morale e cultu­rale. Infatti, pur restando sotto la giurisdizione della Chiesa latina, i preti greci guardavano, come punto di riferimento naturale, alla Chiesa di Oriente. Pertanto, essi erano ordinati dai vescovi orientali e non erano tenuti ad osservare il celibato, il che creava non poche difficoltà nei rap­porti con i fedeli di rito latino, Da qui l'accanimento dei vescovi locali, fra cui spiccava il vescovo di Bisignano, Prospero Vitaliano (1569-1575), che chiese interventi repressivi, denunciando alla Chiesa Greca le eresie e gli errori di quei credenti".

Questa era la situazione della Calabria nel periodo preso in esame è tale rimase a lungo; una regione che sotto il dominio spagnolo aveva perso la sua identità, divenendo, addirittura, una delle dodici provincie del Regno. E' in questo scenario che emerge in modo preponderante la figura di "un semplice"2': frate Umile da Bisignano (1582-1637), un uomo profondamente radicato nel contesto storico e sociale della Calabria, che accolse la provocazione di Gesù Cristo: "vieni e seguimi".

 





copyright Convento Sant'Umile da Bisignano - 2014